ciao sono Ruggero
“…diversamente dalla fotografia, in un laboratorio di analisi cliniche non appare quello che vuoi tu ma quello che serve per una diagnosi. Questa cosa mi stava stretta; mi interessava di scoprire più la malattia dell’anima e il mondo delle emozioni”.
LA MIA STORIA
Mio fratello, che se n’è andato troppo giovane, mi ha trasmesso il “seme” della fotografia: era giornalista e fotografo. Successe da studente, all’età di 18 -19 anni. Quando entrai, per la prima volta, nella camera oscura, per aiutarlo a stampare le foto di un servizio, rimasi attonito da quell’atmosfera “alchemica” di luce rossa e odori acri di acidi ma, questo stato, si trasformò presto in meraviglia quando vidi, per la prima volta nella mia vita, materializzarsi un volto da un foglio di carta bianca immerso in una bacinella. Guardai esterrefatto apparire prima i capelli scuri, le sopracciglia, le labbra e gli occhi scuri poi, piano, piano prese forma anche un viso: il viso di una donna. Fui preso da un’emozione indescrivibile che mi aprì un mondo sconosciuto che andava ben oltre quello che sapevo e mi era stato insegnato dalla scuola e dalla vita in un piccolo paese di montagna disperso tra i monti. Ero felice. Avevo 18 anni. Da quel momento credo di aver già saputo quello che volevo fare.
Un paio d’anni dopo finii le superiori: ero un chimico. Non mi dispiaceva combinare i reagenti per scoprire ciò che non si vede; qualcosa di analogo succede anche in fotografia, quando appare un volto sul foglio di carta bianca. Ma, diversamente dalla fotografia, in un laboratorio di analisi cliniche non appare quello che vuoi tu ma quello che serve per una diagnosi. Questa cosa mi stava stretta: non mi sentivo interessato alle malattie fisiologiche, mi interessava di più la malattia dell’anima e il mondo delle emozioni.
L’anima è invisibile bisogna saperla sviluppare come una buona fotografia, creando le giuste condizioni per farla fiorire. Così partii per Trieste e mi iscrissi a Lettere e Filosofia per intraprendere, successivamente, psicologia. Il terzo anno, durante il quale avevo iniziato a collaborare con il Gazzettino, assieme a mio frattello, accadde un tragico avvenimento: il terremoto del FVG. Era il 1976.
Non ebbi alcuna esitazione. Partii alle 5 del mattino in direzione Vito d’Asio e Gemona. Borsa piena di rotolini FP4 e HP5 preparati durante la notte. Una mia foto (che diventò la copertina del mio libro) fu presa come simbolo della tragedia da un giornalista di Pordenone (Nico Nanni): Anche Piero Fortuna, inviato speciale di Epoca, viste le mie foto e mi consigliò di creare un libro.
Quel tragico evento fu l’iniziò della mia storia di fotografo che divenne presto una esigenza professionale: prima come fotografo matrimonialista, poi da una mia intuizione di unire la fotografia con la grafica ho fondato la Graphistudio, assieme ad un socio. Realtà che, probabilmente molti fotografi professionisti matrimonialisti conoscono. Lasciai questa impresa, dopo circa vent’anni, per continuare la mia crescita e la mia passione per la fotografia. Fondai la Target, una nuova azienda, di fotografia industriale, gradica e comunicazione aziendale nel momento peggiore: fine 2007. Nel 2008 ci fu la grande crisi finanziaria; per me fu un brutto colpo, una decisione sbagliata e dolorosa ma mi insegnò che le scelte devono rispettare la tua vera vocazione, non seguire quella degli altri. Non è così scontato come sembra, spesso credi di fare ciò che vuoi ma, invece, insegui gli obietivi di qualcun altro. Questo fatto e una lunga esperienza di fotografia e di studio del linguaggio visivo mi hanno cambiato.
Da qualche anno mi dedico a progetti di fotografia e allo studio della Teoria della Percezione della Forma (Gestalt) che è diventata il mio cruccio perché la diffusione del digitale e la nascita dei social hanno alterato il rapporto dei giovani con la realtà. Il nostro mondo emozionale e sentimentale non passa più attraverso l’esperienza diretta ma attraverso l’immagine. Ti confronti con ciò che appare. Questo cambio di paradigma ha generato, nei giovani delle ultime generazioni, una grave crisi d’identità e di comunicazione, sia interiore che verso l’altro, provocando sofferenza, disorientamento, rabbia, paura della solitudine. Abbiamo bisogno di ricollegarci con noi stessi. E un bisogno che nessun corso di fotografia ha intercettato, sono tutti orientati sul business, sulla tecnica e l’estetica. Le fotocamere hanno fatto un salto tecnologico sorprendente. Direi che fanno quasi da sole.
Ora Bisogna imparare a far parlare la fotocamera, bisogna capire cos’è il linguaggio visivo e la percezione. Cos’è l’inquadratura e a cosa stare attenti nella composizione.
Con questo blog cerco di rispondere a questi bisogni aiutando i fotografi a far parlare la fotografia fuori dagli stereotipi.
Siate eretici
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