Luglio 2019: mostra fotografica e installazione, presso l’ex Manicomio S. Osvaldo di Udine.
Storia di una foto
Ogni artista partecipante doveva interpretare la sofferenza, lo stato di segregazione, di solitudine e disperazione delle donne del padiglione 9, dove venivano ricoverate le più agitate.
La parola “gabbia”, per me che sono nato in un piccolo paese di montagna, ha un significato preciso: luogo dove si rinchiudeva un animale pericoloso. Un bancale invecchiato, fatiscente, lasciato a lungo sotto la pioggia, mi è sembrato un significante molto espressivo per rappresentare lo stato di segregazione forzata di quelle donne. Quelle che ritenevo le loro ferite psicologiche, le ho collocate nel secondo, quarto e sesto chakra, rispettivamente: il piacere, il desiderio di libertà (io voglio o non voglio) – il coraggio, da core (io decido quello che voglio essere) e l’orientamento, la visione (la vocazione).
Mi sono sembrate le ferite più coerenti con il contesto restrittivo del manicomio e significative del conflitto interiore di tutte quelle donne che non si adattavano e non si adattano ad un sistema sociale discriminante non solo verso il genere femminile ma verso l’uomo in generale.
In questo senso la foto con la “Gabbia” ho deciso di farla diventare il simbolo sia della funzione “contenitiva” dei vecchi manicomi nei confronti dei diversi, sia dell’attuale condizionamento mentale di massa che ha portato, le giovani generazioni, ad una pericolosa crisi d’identità.
Oggi “l’identità è apparenza e passa per l’immagine”, ecco il grande mutamento, che costringe il bambino e poi l’adolescente, ad adottare, per difesa del suo vero io, un’altra identità, un “falso io”: la maschera che ogni giorno curi davanti allo specchio, che ti permette di “essere adulto” secondo gli schemi definiti dagli altri. Maschera che accetti per rassegnazione o per paura, senza mai avere il coraggio di disobbedire o di chiederti semplicemente chi sei.
“Ciò che distingue il nostro tempo è proprio questo rovesciamento: noi viviamo conformandoci ai modelli proposti dalle immagini. Questo non significa che la fotografia sia immorale o diabolica, non tutta la fotografia è “falsa”. Roland Bartes – Camera Chiara.
Ecco perché ho pensato di chiamare Fotografia Eretica il mio blog e tutta quella produzione fotografica che non si allinea al tentativo manipolatorio dell’uomo: quella che non crea immedesimazione ma fa riflettere, quella che esprime la bellezza di un volto, di una persona, della natura, quella che denuncia la sofferenza psicologica, la violenza, lo sfruttamento. Ce ne sono di fotografi/e onesti/e. e alcuni sono miei amici.
Roland Bartes conclude dicendo che “la fotografia è savia quando non crea immedesimazione e non si sostituisce alla realtà, anzi la critica, è pazza se l’immedesimazione diventa assoluta e universale”.
Erich Fromm (1900-1980), L’arte di vivere
“Tutto è diventato business, ogni cosa deve funzionare ed essere utilizzabile. Non esiste un sentimento di identità, esiste un vuoto interiore. Non si hanno convinzioni, né scopi autentici. Il carattere mercantile è l’essere umano completamente alienato, privo di qualunque altro interesse che non sia quello di manipolare e funzionare. È proprio questo il tipo di umano conforme ai bisogni sociali. Si può dire che la maggior parte degli uomini diventano come la società desidera che essi siano per avere successo. La società fabbrica tipi umani così come fabbrica tipi di scarpe o di vestiti o di automobili: merci di cui esiste una domanda. E già da bambino l’uomo impara quale sia il tipo più richiesto.”
Georges Gurdjieff (1866-1948) – I racconti di Balzebù a suo nipote
La nonna di Gurdjieff, sul letto di morte, gli disse: “Ascolta!… e ricorda sempre le mie ultime volontà. Nella vita, non fare mai quello che fanno gli altri».
Poi mi fissò la radice del naso, e notando probabilmente che alle sue parole ero rimasto perplesso aggiunse, un po’ contrariata e in tono autoritario:
«O non fai nulla, cioè vai solo a scuola; o fai qualcosa che mai nessuno abbia fatto».
Siate eretici