Questa foto di Erto restituisce, attraverso l’inquadratura e il gioco di luci e ombre, il carattere impervio, aspro, duro, avaro e generoso della valle del Vajont e dei suoi abitanti (l’amico Mauro Corona ne è la fedele espressione). L’immagine evoca la forza e la tenacia dell’uomo nel costruire quella manciata di case e il segno della tragedia che ha spezzato in pochi secondi un equilibrio con la natura, realizzato in molti secoli, con i ritmi e con una saggezza, molto diversi dall’atteggiamento avido e predatorio che ha caratterizzato gli ultimi 60-70 anni della nostra civiltà.
Dopo aver fotografato il giro d’Italia, che era passato di lì, decido di prendere la vecchia strada che, attraversando la frana del monte Toc (lato sinistro al centro della foto), gira attorno al lago passando per alcuni borghi un tempo abitati e vivi. L’ora era buona e speravo di completare la giornata godendomi il paesaggio, dimenticando la pomposa parata del giro d’Italia. Verso le 17.30 di maggio, mi sono fermato sul ponte, all’uscita dal canyon, del torrente Vajont: il punto migliore per cogliere il fascino tremendo dell’orrido che proprio qui si allarga creando questa vallata per poi stringersi di nuovo precipitando su Longarone. Arrivato sul ponte, la cui altezza è da brivido, stavo fotografando l’orrido esattamente sul lato opposto della foto. Dopo qualche scatto con grandangolo e tele mi sono girato verso Erto, il paese, e ho visto questa condizione di luce; era più intensa, ma il tempo di cambiare l’ottica e di controllare l’esposizione è stato sufficiente a smorzare un po’ la luce sul paese (che ho ricuperato in post). Ho scattato con il diaframma che avevo proprio per non perdere la luce che si muoveva come se ci fosse qualcuno che muovesse un faro. Quei colpi di luce mi hanno meravigliato, mi è sembrato come se qualcuno avesse voluto premiare la scelta di abbandonare le platee chiassose. Ho ringraziato, non so chi ma ho ringraziato.
f:/4,5 – 1/1250s Canon 24-70@48mm – ISO 200
Quest’altra inquadratura invece è una fotografia di di architettura urbana: diversa quindi nell’intenzione che non è emozionale ma morfologica. Si può notare come le case seguano e si incastrino ritmicamente lungo il declivio della montagna fino a suggerire l’idea di una nave che galleggia o di uno skyboard che scende.
Notate il cambio di luce dalla precedente. Qui ho voluto mettere in evidenza la profondità delle strutture, l’inclinazione del terreno e la costruzione su diversi livelli. La scelta è stata una luce laterale di circa 90° verso le 11,00.
La foto precedente è espressione, questa in basso è rappresentazione; mentre nella prima ho colto il mio stato d’animo, l’emozione di una condizione di luce che esprime il significato del luogo, nella seconda rappresento la realtà esterna in senso morfologico (forme e strutture).
C’è sempre il tuo filtro personale, ma la prima esprime uno stato d’animo, delle emozioni, il carattere del luogo, la seconda rappresenta la condizione di quella realtà: il progetto urbano del quale puoi cogliere e studiare le caratteristiche.
Capire questa differenza tra espressione e rappresentazione significa iniziare a comprendere sia il linguaggio visivo, che il cammino di crescita personale che ti permette di conoscere e di abattere, sempre di più, i limiti dell’orizzonte del tuo sguardo (ne parlo nel libro Fotografia Eretica).